La rivelazione del signor X


Il signor X era un uomo comune, come molti se ne incontrano: un tipo per bene, non eccessivamente alto né particolarmente bello, con una prorompente curiosità e una forte autocritica. Viveva una vita apparentemente tranquilla e soddisfacente, ma qualcosa continuava a tormentarlo nel profondo, una domanda a cui non sapeva rispondere: l’uomo può essere libero?


Il signor X aveva passato anni col capo chino su una mole spropositata di testi, antichi e moderni, di filosofia, cercando una risposta a quella che ormai, più che una domanda, era diventata una ossessione. Aveva frequentato gruppi di meditazione, di reiki, interpellato cartomanti e visitato santoni. Era arrivato perfino a chiedere un appuntamento al parroco della chiesa che non aveva mai frequentato, in dieci anni di vita in quel quartiere. Ma né cartomanti, né santoni, né preti avevano saputo rispondere alla sua domanda.


Quel giorno, il signor X si sentiva particolarmente frustrato da una ricerca senza esito, in cui solamente la sua impotenza di fronte alle problematiche dell’uomo s’era rivelata cosa certa e inequivocabile; sapeva per certo che le sue reazioni agli eventi sembravano esulare dal suo controllo, così come sapeva che la sua stessa vita sfuggiva dalle mani e prendeva direzioni imprevedibili solo poche settimane prima. Ciclicamente la vita che si era costruito negli anni, con le sue amicizie, i suoi amori, il suo lavoro, sembrava crollare come un castello di carta, e spesso il signor X s’era figurato non già un Dio, bensì un giullare dallo strano senso dell’umorismo lanciare i dadi del Fato: gli scherzi del destino si susseguivano, e anche se qualche grande filosofo amava affermare che “homo faber fortunae suae”, egli si sentiva amaramente consapevole che, almeno nel suo caso, non era mai stato così, nonostante i suoi sforzi.


Fu così che il signor X prese la macchina, come ogni giorno, fuggendo dal calice amaro delle proprie riflessioni e tentando di pensare soltanto alla strada che si stendeva davanti ai suoi occhi, al rumore del motore, e null’altro.

Ma quel giorno, mentre una strana quiete spesso cercata prendeva possesso della sua mente, il signor X sbagliò strada e si trovò in un’autostrada in corso d’opera, senza uscita prima di 80 chilometri, già in ritardo per la riunione del mattino.
Che cosa accadde in quel momento, egli non seppe capirlo: una frustrazione feroce si fece strada dentro di lui, come una lotta sempre rimandata tra la volontà di essere padrone di sé e l’impotenza dell’uomo di fronte alla vita. Fu in quel preciso istante, alla guida della sua auto, che i dadi della sorte vennero lanciati, e lo scontro sempre rimandato si scatenò in tutta la sua furia: in un impeto disperato, che ignorava albergasse dentro di sé, il signor X sterzò verso il guard-rail con tutta la forza che aveva, e l’urlo che accompagnò il suo gesto fu tremendo e bestiale, come se un animale in gabbia da decenni avesse improvvisamente deciso che ne aveva abbastanza. Con la stessa velocità con cui l’istinto autodistruttivo si era manifestato, l’altrettanto violento istinto di sopravvivenza premette il pedale del freno e girò il volante. La macchina morì in mezzo all’autostrada, tra suoni di clacson e camion che lo sorpassavano strepitando.
E lì, nel mezzo di un delirio stradale, il signor X si trovò solo, shockato da ciò che in se stesso si nascondeva, un tempo sopito e ora desto, furioso, pronto ad ucciderlo per salvare la sua dignità.


Immobile nel mezzo della strada, silenzioso e incapace di pensare, il signor X fece ripartire la sua auto e telefonò al lavoro dandosi malato.
L’autostrada lo portò presto in periferia e poi in aperta campagna, senza possibilità di uscita. Infine, dopo un tempo che parve eterno e una buona dose di crisi di nervi, arrivò a un’uscita e la imboccò. Si accorse solo in quell’istante che era una splendida giornata e non doveva andare al lavoro: inaspettatamente, era libero. Spiazzato, ma libero.
Poco oltre l’uscita, si fermò sulla sponda di un laghetto da pesca dove regnava un religioso silenzio, e i pensieri ripresero possesso del suo cervello:
“Che cos’ho fatto?”, si chiese “Ho forse tentato il suicidio? Oh no, io non potrei mai… io amo la mia vita! O forse non potrei mai perché sono troppo spaventato all’idea di morire? E se non sono stato io, chi mai ha girato il volante?” . Solo in quel momento, si accorse che tremava. Qualcosa era accaduto, ma cosa? La sua mente sembrava arrivata a un punto di non ritorno, incapace di rispondere con le solite, vecchie certezze, e altrettanto incapace d’inventarne di nuove. Il signor X si accorse che l’unica cosa che sapeva, era di essere stanco. Mortalmente stanco, per la precisione.
Si sdraiò sull’erba guardando il cielo terso, e si chiese da quanti anni non si godeva la semplicità di un istante simile. “Troppi”, fu la risposta. E per la prima volta dopo molto tempo, concordò con la sua mente: la sua vita era stata un susseguirsi di mete, di priorità autoimposte, di celata sofferenza, e solo nell’istante che aveva seguito quel rischio mortale riusciva a rendersi conto di non essere – affatto – soddisfatto della sua condizione. Guardò spietatamente alla sua esistenza e si accorse che il suo matrimonio ruotava intorno al terrore della solitudine, le sue amicizie intorno all’ipocrisia; il suo era un buon lavoro, ma non era mai stato quello che voleva fare nella vita.


Stupefatto, il signor X guardò il cielo e si abbandonò a una disperazione per lui impensabile.
“Ho vissuto la vita di un altro!” continuava a ripetersi, incredulo. “Chi sono io?”
Ma nessuna voce rispose dalle nuvole, e per la prima volta nella sua vita il signor X vide con chiarezza le sue illusioni, le bugie che da sempre aveva voluto raccontarsi: sua moglie, un tempo una ragazza splendida e piena di vita, era da vent’anni una cinica arrivista. Quelli che credeva amici erano persone con cui usciva a cena, ma che nel momento del bisogno non c’erano mai stati. E lui? Il crollo delle certezze fu molto più impietoso con lui che con quelli che lo circondavano: lui era un vigliacco, un ipocrita, un verme e un bugiardo, che spesso si sorprendeva a tramare alle spalle della gente e ad augurare il peggio a chi lo circondava.


Si ricordò improvvisamente di un uomo, che da giovane amava cucinare e voleva aprire una tavola calda, che amava le moto e sognava di non dover mai chiedere scusa per essere così com’era. Un uomo con una grande passione per l’arte e per la vita, mai stanco di conoscere. Quell’uomo, l’avrete capito, era lui. Ma qualcuno gli aveva detto che fare il ristoratore era un mestiere impegnativo, e rendeva poco. Molto meglio trasferirsi in centro, studiare economia e diventare commercialista. Aveva sempre avuto un debole per la sua vicina di casa, ma qualcuno gli aveva detto che era grassoccia, e sarebbe stato stupido non mettersi con quella compagna di studi bellissima, che gli faceva gli occhioni da cerbiatta ogni volta che lo vedeva passare. E così via, e così via, e così via. Per tutta la vita.
In un impeto di rabbia, pensò di maledire tutti quelli che l’avevano costretto a seguire una strada non sua, ma quel giorno il signor X non era in vena di raccontarsi altre frottole.
“Io. Io ho scelto la mia vita.”, fu costretto ad ammettere. “Ogni singolo giorno ho scelto, ogni sofferenza l’ho procurata rinnegandomi.”
Il boccone era amaro, ma come ho già detto il signor X era un uomo dalla forte autocritica, e accusò il colpo: soddisfatto e quasi divertito dall’ilarità della sorte, si mise a guardare le increspature dell’acqua. Ciò che più lo sorprese fu accorgersi che nel mezzo di quella confessione a se stesso, l’ansia che spesso l’accompagnava era scomparsa, e una nuova bellezza sembrava pulsare nel mondo, come se fosse in pace con una terra prima ostile e un nuovo orizzonte si fosse aperto.
“Mio Dio,” si disse, “da quanto tempo l’erba non era così verde?”
“Da quando eri innamorato della vita, Stefano.”, gli rispose la sua mente.
E per la seconda volta nella giornata, Stefano concordò con la sua mente.


Una cosa sapeva, ed era la prima verità che imparava sulla sua pelle: una volta svuotata la coppa di tutte le illusioni, ciò che rimane è la realtà. E non sempre è così terribile da doverla fuggire per tutta la vita.
Nessuno seppe mai spiegarsi il motivo del repentino cambiamento del signor X, né lui si premurò di spiegare nulla perché sospettava seriamente che nessuno l’avrebbe capito e che, in fondo, a nessuno importasse. Ma da quel giorno, Stefano non chiese mai più scusa per il fatto d’essere se stesso

TRE SONO I PRINCIPI

“TRE sono i principii che deve conoscere il nostro artefice onde operare per virtù propria nella medicina, nell’arte alchimistica, metallica, e minerale.

Il primo principio è la materia, che dev’essere conosciuta dall’artefice di questa Opera, per la medicina e la pietra che è destinata a ricevere l’essere sostanziale. Perché se la materia è tale, quale la natura ricerca, essa riuscirà gratissima alla forma. Forma, materia e mezzo, cioè forze, ecco quello che deve concorrere per la migliore riuscita, come si dirà in proseguo.

Il secondo principio è il mezzo, molto più semplice rispetto al primo, ed è quello per cui la materia riceve la sua perfezione.

Il terzo è il principio della Quinta Essenza.

Il primo principio è nel mercurio volgare o comune.
Il secondo principio è nelle acque sottili in cui si risolve la fangosità del primo principio.
Il terzo principio, essenziale, è in relazione alla virtù delle stelle fisse, mobili, e dei loro diversi aspetti. Questo principio s’infonde nella materia per opera delle cotidiane influenze, appropriandolo con l’arteficio del secondo principio.

Il secondo principio, causa, dunque, ed è recettibile conveniente del terzo e di tutte le sue virtù che scendono dal cielo e che sono di ogni cosa generata la perfezione e la forma, come si può ben vedere dalle sue qualità caratteristiche.

Ma quello che genera, viene materialmente dal primo, dal quale si diparte la virtù minerale, che è materia semplice, divenuta perfetta quando riceve la forma per la Quinta Essenza celeste.”

Raimondo Lullo, Trattato sulla Quintessenza

I MISTERI DI INANNA

Si è da poco concluso il workshop online su Inanna – miti e simboli della dea.

Con il consenso dei partecipanti, che colgo l’occasione per ringraziare di vero cuore per la passione e la partecipazione, le lezioni sono state registrate e sono ora disponibili in differita.

Per informazioni, potete scrivere a apocalisseinsalotto@gmail.com

Ricordo brevemente il programma:

1 lezione: Dai pittogrammi alla stella
caratteri esoterici di una dea. Analisi delle funzioni di Inanna, simbolismo e carattere del santuario.

2 lezione: Il Grande Diluvio
I regni prediluviani e regalità post-diluviana. L’età dell’oro; la civilizzazione di Enki e l’esclusione di Inanna. La “lista Reale sumerica”. Il problema della rottura del legame cielo-terra. Uruk e Aratta.

3 lezione: I miti di conquista.
Inanna e il Kur dei Cedri , Inanna ed Enki, Inanna ed An, Inanna e l’Oltremondo.
Significato “politico” ed esoterico dei miti di conquista; analisi dei miti.

4 lezione: I miti allegorici.
Inanna e Shukallituda (il corvo e l’antimonio), l’ascesa di Etana (l’aquila e il serpente)
Analisi dei miti e del simbolismo alchimico sotteso.

5 lezione: Inanna e Gilgamesh. L’albero Halub, l’occupazione del Gipar. Il passaggio necessario della dea. Conclusioni e consigli per una ricerca e una pratica personale.

LE GROTTE DEL TEMPO

Ispirato ai miti sulla Terra Cava e alle leggendarie razze prediluviane, “Le Grotte del Tempo” (di Anna Bellon, ed. Psiche2) è un romanzo esoterico e visionario che vola attraverso le epoche del mondo, seguendo i protagonisti oltre la soglia del conosciuto.

Tutto ha inizio in una grotta senza tempo.

“Giorno e notte si confondono nel crepuscolo della grotta. La superficie del pianeta è ormai una memoria sbiadita e Lila ignora da quanto tempo non vede i raggi del sole.
I suoi occhi si sono ormai abituati alla luce soffusa degli specchi nascosti ed è svanita la meraviglia per quel luogo – fatto di drappeggi d’alabastro, stalattiti e laghetti incrostati di cristalli – che ora chiama casa.
Nemmeno ricorda l’istante preciso in cui il tempo ha iniziato a rallentare e la memoria, lentamente, a sbiadire: forse è accaduto nell’istante stesso in cui la porta si è aperta e ha messo piede nel mondo di sotto.”

Lila, suo malgrado, si trova a seguire un filo d’Arianna che spacca il mondo in due: da un lato la vita ordinaria, dall’altro una storia del tutto diversa, custodita da una civiltà sotterranea dall’inizio dei tempi.

Verrà il giorno in cui sarà necessario scegliere tra un destino già scritto e un viaggio verso l’ignoto, che si spinge fin nel profondo della Foresta Amazzonica: se lì esistesse una risposta alle domande più profonde dell’essere umano, chi oserebbe raggiungerla?

Il romanzo ha ispirato il concept album “Le grotte del tempo’’ del gruppo musicale La Nera Cantoria.

Lo trovate in libreria e in tutti gli store online.

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IL FUOCO SENZA CORPO O “LEONE” DI F. PATRIZI

“Ci sono dei misteri che bisogna seppellire nelle pieghe più impenetrabili del pensiero.
Il fuoco sempre agitato e scattante nell’atmosfera può assumere una configurazione simile a quella dei corpi.
O per meglio dire, affermiamo l’esistenza di un fuoco pieno d’immagini e di echi.
Chiamiamolo, se volete, una luce sovrabbondante che irradia, che parla, che si avvolge.

È il destriero sfolgorante della luce, o piuttosto è il bambino dalle larghe spalle che domina e sottomette il destriero celeste.
Che lo vestiamo di fiamme e d’oro o che lo rappresentiamo nudo come l’Amore dandogli le frecce.

Ma se si prolunga la tua meditazione riunirai tutti questi emblemi nella figura del Leone; quando non vediamo più nulla della volta celeste né dei cieli né della massa dell’universo. Gli astri hanno cessato di brillare e la luce della luna è velata.
La terra trema e tutto intorno si rischiara di lampi.
Allora non chiama il simulacro visibile dell’anima della natura.
Poiché non devi vederli prima che il tuo corpo sia stato purificato dalle sacre prove.

Snervando gli animi e trascinandoli lontani dalle cose sacre, i cani terrestri escono da quei limbi nei quali finisce la materia e mostrano agli sguardi mortali apparenze sempre ingannatrici.

Lavora intorno ai cerchi descritti dal rombo di Ecate.
Non cambiare nulla ai nomi barbari dell’evocazione: questi sono i nomi panteistici di Dio; sono attratti dalle adorazioni di una moltitudine e la loro potenza è ineffabile.

E quando dopo tutti i fantasmi vedrai brillare questo fuoco senza corpo, questo fuoco sacro le cui frecce attraversano in una volta tutte le profondità del mondo:
Ascolta ciò che ti dirà!”

Francesco Patrizi, o Franciscus Patricius, Magia filosofica, 1593

[Magia philosophica, hoc est Francisci Patricij summi philosophi Zoroaster et eius 320 oracula Chaldaica. Asclepii dialogus, et philosophia magna: Hermetis Trismegisti. Iam lat. reddita, Hamburg, 1593]

LA “MAGIA” PRIMA DI GOOGLE



Prima di Google, per muovere i primi passi nel mondo esoterico avevi bisogno di due cose: una buona libreria e un buon mentore.

Quello che voglio dire è che, prima del mondo virtuale con la sua miriade di informazioni, c’erano le persone, con il loro bagaglio di esperienza di vita e di strada.
Sembra scontato dirlo, per chi ha conosciuto quel mondo, ma a volte faccio anch’io fatica a ricordarlo.

Metà delle cose che so non vengono dai libri ma dai pomeriggi rubati.
Ne ho rubati a decine: a un’astrologa, a un’erborista, alla proprietaria di una libreria, a un mago, a un chiaroveggente, a un alchimista. Perfino a una guaritrice di campagna.
Ero una sorta di spugna che faceva domande e assorbiva qualsiasi cosa.
Solo dopo compravo i libri e, solo allora, un po’ riuscivo a capirli, a penetrarne il linguaggio simbolico, a sapere cosa cercare fra le righe: erano state le persone a darmene la chiave, quelle che avevano percorso il sentiero prima di me.

Perché c’è una grande verità da imparare: nei libri non è scritto tutto e su internet men che meno; ci sono chiavi di lettura che passano soltanto da bocca a orecchio e il motivo sarebbe difficile da spiegare qui, ma possiamo sintetizzarlo così: esistono insegnamenti che soltanto due corpi astrali in comunione tra loro possono scambiarsi.
E specialmente, inutile negarlo, se un mentore ha un buon magnetismo, è un immenso aiuto per affrontare ogni prova.

Questa necessità dell’altro, buon mentore o pessimo che fosse, faceva sì che molto presto si sviluppasse qualcosa di prezioso per il proprio cammino: la consapevolezza di non sapere.
Il bisogno di approfondire, di imparare, di studiare per reggere una conversazione senza sentirsi dei perfetti imbecilli, veniva di conseguenza come un fuoco che, dopo avere bruciato le sterpaglie, inizi a prendere sul serio.

Quando arrivarono i primi luoghi virtuali di scambio, Google c’era già da un pezzo e la differenza rispetto a prima si vedeva: le conversazioni virtuali erano molto più facili, ce ne siamo accorti tutti subito.
Tutti, improvvisamente, sapevano tutto.
O almeno, così sembrava.
Non sapevi una cosa ma volevi intervenire e dire la tua? Volevi semplicemente fare il fenomeno? Cercavi su Google, parafrasavi quello che trovavi e diventavi subito un esperto in materia.
È così che sono nati i falsi maestri del terzo millennio, sapete.
Quelli di prima erano pressoché inoffensivi: bastavano due domande in croce e anche un neofita si accorgeva che erano tutti amuleti al collo e niente arrosto.
Col tempo, senza vedersi in faccia, senza quella comunione tra corpi sottili che costituisce il cuore dell’insegnamento, distinguere è diventato sempre più difficile.
Solo chi già aveva un suo bagaglio sgamava il millantatore, che di solito aveva dietro di sé una fila di adepti adoranti con chiari problemi di dipendenza (e lui/ lei di narcisisimo patologico).

Ricordo ancora le parole del mio ultimo mentore – di quello, cioè, che mi ha liberata definitivamente del bisogno di cercare un “maestro” – il giorno in cui ci siamo conosciuti: “tutti credono che si possa diventare superuomini dall’oggi al domani. La verità è che, prima di tutto, bisogna imparare a essere umani”.

Quando qualuno si rivolgeva a lui per la prima volta, dava sempre lo stesso esercizio: gli dava un sasso.
“Prendi questo sasso”, diceva. “Domattina all’alba ti alzi e lo porti, a piedi, a 500 metri da casa tua.”
“E poi?”, chiedeva il malcapitato.
“E poi il giorno dopo, all’alba, lo vai a riprendere. Vai avanti così per un mese. Se salti un giorno ricominci daccapo. Quando hai finito, torna da me e parleremo.”

Mi spiegò tempo dopo che, oltre ad allenare la volontà, quell’esercizio serviva anche a lui, per selezionare le persone.
“Chi torna dopo un mese è una pecora o un bugiardo: significa che ha obbedito ciecamente, oppure che ha imbrogliato. In entrambi i casi, non mi interessa prendermene cura. Ma se torna dopo poco più di un mese con aria mogia, vuol dire che è caduto e si è rialzato: ha tentennato e ha ricominciato daccapo. Allora inizio a parlarci sul serio.”

Questo umanesimo vero, impegnativo nella vita quotidiana, è stato la mia culla, quello che mi ha permesso di prendere la mia forza, il mio spirito ribelle e infiammabile, e farne la materia prima per la mia Opera.
La magia, il contatto con l’Oltremondo, le dissertazioni filosofiche, sono venuti dopo, quando avevo imparato a fluire in me stessa, prima ancora di pensare di poter fluire con la natura o entrare in contatto con le sue forze invisibili.