C’è qualcosa di tremendo nel concetto di Soglia.
È raro che il nostro immaginario colga nella Soglia il concetto di possibilità, di avventura, di esplorazione: più spesso, la prima immagine che ce ne viene è un orrore atavico di fronte a ciò che può gettarci in un mondo ignoto.
Fin dalla più remota antichità, la soglia del santuario è stata velata e interdetta agli occhi profani, tanto che Hammurabi celebrava l’averla ricoperta di fronde e l’averne reso così invisibile l’interno, il luogo verso cui lo sguardo non si poteva dirigere, essendo concepito come varco per l’Oltremondo.
In Zanoni, Glyndon osa tentare anzitempo di oltrepassarla, trovandosi di fronte a un terribile Guardiano, la cui vista lo scuote d’orrore.
L’esperienza che si richiama è quella della nascita: l’istante in cui, oltrepassando il varco, siamo piombati nel mondo delle forme, abbandonando per sempre la pace del grembo, i rumori attutiti, la vita fatta d’immagini mentali, la calda sicurezza del battito del cuore materno.
Non è un caso che il mondo invisibile sia intriso di un simbolismo uterino: lo stesso termine “astrale” (senza luce) richiama la condizione prenatale, così come il simbolo iniziatico per eccellenza (l’uovo) si connette alla gestazione.
Così, l’incontrollabile terrore verso la Soglia ignota ha radici in un ricordo inconscio e indicibile: quello del distacco dalla Madre che, più che il genitore fisico, è da identificarsi con una condizione edenica che abbiamo realmente vissuto e giace nelle più recondite profondità del nostro essere.
Come pensavamo, prima di nascere? Chi eravamo, in assenza del mondo? Quali sogni, quali esseri ci hanno visitati?
In quella percezione totale e autentica di noi stessi, che giace oltre l’orrore e lo spavento, si trova il seme dell’anima, il nostro essere antico, ciò che siamo stati, fuori dal tempo e dello spazio, nella vita intrauterina in cui si incarnano le anime.
A.B.
